Ho sempre amato ascoltare i racconti di vita delle persone.
I nonni che ho potuto conoscere, e che sono vissuti fino alla mia età adulta, erano contadini veneti nati rispettivamente nel 1909 e nel 1919. I racconti che ho sentito in famiglia hanno attraversato la parabola e i cambiamenti epocali del secolo breve. Sono storie di contadini mezzadri che hanno vissuto la fatica, la povertà e, a volte i soprusi della classe padrona, come nel meraviglioso film L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi. Sono le storie di chi, inviato in guerra come soldato semplice, ha risalito la penisola al seguito degli alleati sbarcati in Sicilia. Sono le storie dell’immigrazione interna di massa degli anni Cinquanta, della vita nelle Coree, delle famiglie numerose e povere che però si aiutavano l’un l’altra. Sono i racconti dell’inaspettato benessere del boom economico. Sono storie di artigiani e operai che si fanno piccoli imprenditori negli anni delle economie occidentali in espansione. Sono microstorie che attraversano il cambiamento e la nascita del mondo e della società come la conosciamo oggi.
Questi racconti, per me, sono anche persone, volti, vite, emozioni…e non posso non pensare che essi abbiano inevitabilmente influito sulla persona che sono, sulle mie idee politiche, sul mio concetto di giustizia sociale, sui valori civili e morali in cui credo.
E allora a volte mi chiedo: se fossi nata in una famiglia e in un contesto diverso, avrei ancora gli stessi valori e le stesse idee, o ne avrei altri?
Quando vengo colta da questi dubbi, mi rifaccio alle parole di chi ne sa più di me. Una volta il mitico professor Alessandro Barbero, ha parlato della distinzione tra storia e memoria.
Partiva da un esempio calato nella realtà italiana. In tutte le nostre famiglie, diceva, si conserva il ricordo degli eventi della seconda guerra mondiale. In alcune i nonni avranno raccontato a figli e nipoti che i partigiani hanno liberato l’Italia, che erano degli eroi e che grazie a loro è stato abbattuto un regime dittatoriale che aveva rovinato il Paese. In tante altre famiglie, che hanno avuto esperienze diverse durante gli anni del regime e del conflitto, sarà stato raccontato che i partigiani non erano proprio tutti delle brave persone, che alcuni di loro hanno compiuto delle atrocità e che comunque durante gli anni del fascismo non è che si stesse poi così tanto male, che il duce in fondo, aveva fatto anche del bene per il Paese, ecc.. ecc..
Chi ha ragione? Entrambi, perchè in entrambe le memorie c’è una parte di verità.
Ed ecco allora il valore precipuo dello studio della storia: saper osservare gli eventi del passato da una prospettiva più alta, che ci permetta di capire le ragioni di tutte le parti in causa. Capire la complessità dei fattori politici, economici, storici e sociali che determinano gli eventi e, soprattutto, capire le conseguenze sul lungo periodo degli eventi stessi, è ciò che differenzia la storia dalle memorie.
Perché la storia si basa sulle memorie, ma da esse deve sapersi distaccare ponendosi in una prospettiva temporale più ampia, che permetta una analisi il più possibile oggettiva degli avvenimenti e delle loro conseguenze.
Perché solo così dalla storia possiamo imparare. Mentre delle memorie rischiamo di non riuscire a distaccarci diventandone schiavi.
Per mia fortuna sono sempre stata appassionata di storia e ho potuto studiarla, non come chi fa lo storico di professione, ma comunque a livello universitario. Ho continuato poi negli anni ad informarmi, leggendo e ascoltando gli storici, guardando film, leggendo giornali, libri e anche romanzi.
E questo, tornando alla domanda che mi ponevo qualche paragrafo sopra, mi ha permesso di mantenere e addirittura solidificare le mie idee politiche e sociali. Anzi, proprio perché conosco le ragioni di chi la pensa diversamente da me e perché capisco da quali origini storiche e sociali sono maturate le mie come le loro convinzioni, ho potuto riflettere e scegliere, più criticamente, da che parte stare senza, spero, chiudermi al dialogo con chi non ha le mie stesse opinioni o la mia stessa visione del mondo.
P.S. Ho scelto come immagine di accompagnamento a questo post la copertina dell’album RADICI di Francesco Guccini. Perchè le radici sono una bellissima metafora dell’identità, ma sono anche un’immagine a doppio taglio. Da una parte infatti, danno l’idea di un corpo che affonda nella terra, che sostiene e nutre un grande albero e ci fanno pensare a vita, vitalità, rigoglio, crescita. Dall’altra però nascondono un’insidia: una radice di quercia è radice soltanto di una pianta di quercia, e nient’altro è ammissibile. E l’identità che si fonda esclusivamente sulle radici (o sulla memoria) ci mette ben poco a parlare di razza o di purezza, immutabilità, identificazione in una natura originaria che non si può modificare.
E dato che questi pensieri sono tentazioni che attraversano pericolosamente il nostro tempo, io voglio tenermene assolutamente lontana .