Quando ero bambina i miei genitori lavoravano entrambi a tempo pieno. Durante le vacanze venivo parcheggiata per intere giornate a casa di parenti che potessero prendersi cura di me, tra cui mia nonna Graziosa.
La mamma di mio padre era una donna pratica ed estremamente energica, era stata una contadina, nata nelle campagne venete ed emigrata in Lombardia a fine anni Cinquanta, aveva avuto 7 figli – tutti maschi, era vedova dall’inizio degli anni 70, abitava in una piccola casa nello stesso cortile in cui vivevano 4 dei 6 figli sopravvissuti.
Appena arrivata in Lombardia era stata soprannominata “La veneta bella”, era intelligente e forte, era consapevole di esserlo, anche se il contesto in cui era nata non le aveva permesso di raggiungere i traguardi che un altro ambiente, un altro periodo storico, un altro livello di istruzione, le avrebbero reso accessibili. Il suo è stato quindi un destino di lavoro duro, sudditanza all’uomo, maternità, povertà ed emigrazione.
Tutte cose che però non l’hanno piegata perché era ricca di convinzioni potenzianti su sé stessa e di attenzione selettiva, che le permettevano di leggere gli avvenimenti della sua vita in una chiave che la faceva sempre risultare vincente e non lasciava spazio ai dubbi.
Con lei ho fatto cose divertenti, proibite dai miei genitori, a volte un po’ pericolose, di cui ho ricordi pieni di affetto. Ma soprattutto ho ascoltato i suoi racconti, e gli avvenimenti della sua vita, narrati secondo la sua visione di parte, sono diventati i miei ricordi di famiglia.
Mi diceva, tra le altre cose, che noi ragazze di allora eravamo fortunate perché libere. Potevamo uscire, potevamo viaggiare, potevamo scegliere. Mi incitava a studiare per non restare “ignorantotta” come era toccato a lei, mi invitava ad avere più di un fidanzato e a non sposarmi vergine (che cosa emancipata da dire per una donna nata nel 1909!!). Mi raccontava dettagli anche sgradevoli della sua vita matrimoniale raccomandandomi di non accettare mai certi comportamenti da parte di un partner.
E’ anche grazie a lei che ho maturato alcune delle mie convinzioni personali tra cui il valore quasi sacrale dello studio, il femminismo.
Il suo era però un femminismo “difensivo” forse naturale per il periodo e il contesto in cui era vissuta. Il femminismo di coloro che si sentono in trincea lanciate alla conquista di territori ostili, dominati dagli uomini, in cui guadagnare spazi riproponendone però i valori e i comportamenti distorti: il verticismo, il successo, l’individualismo, il denaro come unico metro del valore delle persone, lo sgomitare.
La mia generazione, per fortuna, può lavorare per un femminismo che qualcuno (giuliablasi.it) ha definito “di costruzione”: che sia capacità critica di individuare i nodi culturali che impediscono a uomini e donne di autodeterminarsi secondo i propri desideri.
Ed è tutta un’altra prospettiva, per fortuna.